venerdì 12 febbraio 2010

Le comunità di pratica

More about Coltivare comunità di pratica

More about Comunità di pratica

Nelle organizzazioni sono presenti communities o reti di relazione informali che, se opportunamente governate, possono offrire un notevole contributo allo sviluppo organizzativo, riguardo diversi aspetti:

- performance: i team di lavoro operano anche con modalità non definite dall’organizzazione, sostenere il networking informale vuol dire sostenere i processi di muta collaborazione e serve a migliorare le prestazioni;
- conoscenza: nei network fluisce l’informazione arricchita da fiducia, esperienza, elementi di contesto;
- innovazione: i processi creativi avvengono attraverso il network che aperto a recepire tutti i contributi e tutti i punti di vista realizza serendipity, la soluzione non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra;
- apprendimento: legato all’espansione e alla costruzione di una rete;
- apertura verso l’esterno: lavorare sulle community significa adeguarsi ad una realtà esterna che lavora già come community;
- tecnologia: per favorire le necessità di interazione all’interno di un network sarà necessario adottare tecnologie innovative e flessibili, che possano consentire un flusso bidirezionale e agevolare la collaborazione.

Le comunità di pratica, nelle quali entrano in gioco esperienza, apprendimento situato e capitalizzazione della conoscenza tacita, sono un elemento chiave di gestione dell’apprendimento e dello sviluppo organizzativo, soprattutto perché focalizzate sul learning by doing, ossia sull’apprendere per prove ed errori, sull’osservazione e sull’interazione. Sono luoghi di ascolto, favoriscono la socializzazione del know-how e l’apprendimento organizzativo, costituiscono una modalità di apprendimento collettivo, perché vi è la possibilità di avvalersi dell’expertise degli stessi partecipanti.

Risultano un efficace strumento formativo perché:
- i meccanismi di costruzione della conoscenza sono dal basso e di tipo sociale;
- le modalità di classificazione e organizzazione della conoscenza devono focalizzarsi su folksonomie e non su tassonomie, cioè su criteri che abbiano significato per chi li utilizza, mentre il sistema di correlazione tra competenze, processi, output, ruoli può essere mantenuto attraverso un sistema di social tagging;
- nella community non si può prescindere da un sistema di valutazione delle competenze;
- i meccanismi partecipati e le tecnologie consentono una velocità di aggiornamento.

Le comunità di pratica sono luoghi di scambio di informazioni, necessarie all’azione operativa e di esperienze che possono diventare driver importanti per la capacità di innovazione della stessa organizzazione.

Il termine, coniato per la prima volta da Lave e Wenger nel 1991, rappresenta gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di problemi, una passione rispetto a una tematica e che approfondiscono la loro conoscenza ed esperienza mediante interazioni continue. Il concetto rimanda ad aggregazioni informali e spontanee, situate i un determinato contesto di riferimento, che è appunto quello organizzativo, che si attivano e si costruiscono attorno a pratiche comuni di lavoro, sviluppando, attraverso interazioni sociali continue un repertorio comune di saperi pratici, di linguaggi, di modalità di risoluzione dei problemi.

Wenger descrive le communities of practices come gruppi di persone, tenuti insieme dalla passione e dal vantaggio che le persone ne ricavano, con relazioni paritarie e di supporto reciproco che interagiscono con continuità per migliorare la propria conoscenza e la propria capacità professionale, caratterizzate da tre elementi:

- domain, un’area di conoscenza specifica

- community, una comunità i cui membri interagiscono stabilmente

- practice, l’insieme dei metodi, strumenti, storie, casi, documenti, che i membri della comunità condividono e sviluppano insieme. I membri fanno qualcosa insieme e acquisiscono conoscenze pratiche nella propria area.

I meccanismi di funzionamento delle comunità di pratica si fondano su:
- un’impresa comune (a joint enterprise), che rimanda alla condivisione in termini di partecipazione e negoziazione, di una comune tematica, motivo per cui esiste la comunità stessa;
- un impegno reciproco (mutual engagement), che enfatizza l’importanza delle relazioni e interazioni tra le persone che alimentano coinvolgimento e modalità di lavoro collaborativo e cooperativo;
- un repertorio condiviso (a shared repertoire), ovvero l’insieme delle routines, parole, strumenti, modi di fare le cose, storie, gesti, generi, azioni o concetti che la comunità ha prodotto o adottato nel corso della sua esistenza e che sono diventati parte delle pratiche.

L’organizzazione che vuole approfittare delle opportunità derivate dalle CdP deve tollerare e non impedire la creazione di forme di aggregazione spontanee e informali, riconoscere e legittimare la comunità e le expertise maturate nell’interno, inserire la comunità nei percorsi di crescita delle competenze e difenderne gli spazi e i tempi. Poi, per favorire la creazione di nuove comunità, dovrà attrezzarsi lato organizzativo e tecnologico affinché si crei l’humus giusto che le alimenti e renda possibile il loro sviluppo. Infine, per mantenerle vive, metterà in atto tutta una serie di azioni e iniziative in modo di diventare piattaforma di sostegno delle comunità.

Le fasi di sviluppo di una comunità di pratica sono:
- analisi di fattibilità che mira a qualificare la tipologia di community da realizzare;
- utilizzo di strumenti adeguati, quali ad esempio la SNA – Social Network Analysis, per individuare i flussi reali e le dinamiche del sistema sociale aziendale;
- progettazione, durante la quale vengono individuati gli elementi chiave per coltivare le comunità di pratica (contenuti, servizi di supporto, ruoli, modalità di gestione;
- implementazione dell’ambiente web a supporto della comunità, che sia user centric e che favorisca l’attività collaborativa;
- individuazione e implementazione dei servizi di sostegno;
- lancio, attraverso un ampio coinvolgimento, perché la capacità del network è potenziata dal suo espandersi, con modalità di viral marketing;
- gestione che comporta tutte le attività di controllo dell’adeguatezza degli strumenti, di monitoraggio delle attività e di sviluppo della comunità;
- individuazione delle figure chiave della comunità (comitato guida, responsabile del progetto, redazione, coordinatori, esperti);
- creazione del palinsesto, ossia della programmazione dettagliata e coordinata degli eventi che coinvolgono la comunità;
- creazione di report di misurazione, che costruendo una base storica di dati, permettono di orientare l’evoluzione della comunità.

Sottolineando la loro natura di gruppi sociali spontanei, le comunità di pratica differiscono in modo sostanziale dalle altre variabili organizzative (quali unità organizzative, team e network informali), proprio perché basate su legami informali e non su relazioni di tipo gerarchico, su un sentimento di appartenenza e sulla creazione di un’identità professionale e culturale condivisa.

Il concetto di comunità di pratica, da questa prospettiva, permette di costruire un ponte logico e operativo tra comunicazione informale e formale, poiché permette di veicolare, attraverso la dimensione informale, messaggi e valori tipici di quella formale. Inoltre, superando i rapporti di autorità e gli stessi confini organizzativi, le stesse comunità di pratica rappresentano strumenti che sostengono l’instaurarsi di scambi di conoscenza tacita ed esplicita, facilitati ancor più dall’evoluzione della tecnologia, diventando, al contempo, vettori di apprendimento sociale, facilitatori del processo di socializzazione e condivisione della conoscenza, nonché propulsori di innovazione.

A questo scopo reti intranet, posta elettronica, sistemi di servizi ai dipendenti rappresentano elementi essenziali per la gestione efficace delle informazioni e per la creazione di una piattaforma di conoscenza condivisa. Infatti, come già visto, le caratteristiche delle nuove tecnologie favoriscono il fluire di vie laterali e orizzontali di comunicazione. Le opportunità che esse dischiudono non si esauriscono solamente nel velocizzare e rendere capillare la diffusione delle informazioni all’interno della struttura organizzativa, ma si moltiplicano attraverso la creazione di spazi virtuali dove possono snodarsi anche relazioni informali, attivatrici di processi di interazione/integrazione culturale diffusi.