venerdì 2 ottobre 2009

Cosa è il Knowledge Management: brevi cenni storici e teorici

Le radici del knowledge management affondano nel 1916, quando fu coniato il termine Fordismo per descrivere il successo ottenuto nell'industria automobilistica a partire dal 1913 dall'industriale statunitense Henry Ford (1863 - 1947), che si ispirò alle teorie proposte dal connazionale Frederick Taylor (1856 - 1915). Taylor, infatti, aveva sviluppato una teoria, poi denominata Taylorismo (dal nome del suo fondatore), che espose nella monografia del 1911 intitolata “The Principles of Scientific Management”, un trattato sull’organizzazione scientifica del lavoro. L’esigenza di individuare una metodologia che portasse le aziende ad essere maggiormente efficaci era dovuto al momento storico, post rivoluzione industriale, che vedeva un fermento tecnologico tale da creare il rischio di non adeguatezza alle innovazioni dei processi produttivi se non opportunamente gestiti e organizzati. In sintesi, Taylor suggeriva di organizzare il modello lavorativo secondo tre fasi:
1. analizzare le caratteristiche della mansione
da svolgere
2. creare il prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di mansione
3. selezionare il lavoratore ideale, al fine di formarlo e introdurlo nell'azienda

Il punto cardine era identificare un lavoratore adatto al raggiungimento degli obiettivi prefissati per ogni mansione da svolgere. La conseguenza era l’alienazione dei lavoratori rispetto a quanto erano chiamati a fare, poiché non era richiesta né una specifica conoscenza, né una competenza particolare. I lavoratori erano considerati alla stregua di “ingranaggi”, dovevano soltanto interagire con una macchina. Quindi c'era un estremo bisogno di una figura che portasse delle effettive soluzioni a tali scompensi sociali, quali il malessere lavorativo, lo stress quotidiano, il malcontento e la scarsa resa produttiva.

La prima introduzione su vasta scala dei metodi tayloristici fu attuata dalla Ford, che nel 1908 realizzò la catena di montaggio per avviare la creazione del “modello T”, l'automobile destinata a conquistare il mercato con i suoi prezzi particolarmente competitivi. Fu in seguito adottata in modo considerevole nel settore dell'industria manifatturiera, tanto da rivoluzionare notevolmente l'organizzazione della produzione a livello globale e diventare uno dei pilastri fondamentali dell'economia del XX secolo, con notevoli influenze sulla società.
I pilastri su cui si fondava il Fordismo erano:
· spinta divisione del lavoro
· raggruppamento per attività simili
· gerarchia/burocrazia
· prodotti standard a basso prezzo
· pochi modelli
· integrazione verticale o rapporti di fornitura basati sul prezzo

Questo rendeva necessario operare un embrionale knowledge management, valido per quelle che erano le esigenze delle organizzazioni di quel tempo, caratterizzato da:
· cattura e analisi delle best practises dei lavoratori efficienti;
· scomposizione delle attività in operazioni elementari;
· standardizzazione dei processi;
· affidamento delle operazioni elementari ai lavoratori non addestrati e stretta supervisione.

Il Fordismo era adatto ad ambienti poco complessi, orientato essenzialmente all’abbattimento dei costi di produzione attraverso l’utilizzo di manodopera poco qualificata, teso a realizzare elevati volumi di produzione di pochi modelli di auto, senza interesse alla personalizzazione, ma piuttosto alla standardizzazione, così da poter allargare il mercato di riferimento. La criticità di questo modello organizzativo fu la poca flessibilità, il difficile coordinamento delle varie risorse e funzioni, bassa capacità di innovazione e di risposta ai cambiamenti ambientali, deresponsabilizzazione, conflitti e sprechi. Il superamento del Fordismo avvenne quando si affacciò un nuovo approccio, il Toyotismo, nella gestione dei processi produttivi, finalizzato a rendere le aziende più competitive, basato su tre pilastri fondamentali che sono: la qualità dei prodotti secondo i principi del TQM – Total Quality Management, i contenuti costi di produzione e i tempi rapidi di consegna dei prodotti secondo il principio del JIT – Just In Time.
I principi fondamentali del Toyotismo sono:
· orientamento al cliente che comporta servizi/prodotti personalizzati
· orientamento al processo che come il prodotto deve rispondere a criteri di qualità
· coinvolgimento dei lavoratori, che da elementi passivi devono diventare attivi
· miglioramento continuo

Questo nuovo modo di intendere il ruolo dei lavoratori e di organizzare e strutturare le aziende pone le basi per un’attività di knowledge management che si ricava:
· nel monitoraggio e nella misurazione continua delle performance di processo;
· nelle rilevazioni degli scostamenti dagli standard aziendali o dai bisogni dei clienti, sia interni che esterni, effettuate dai lavoratori addestrati al lavoro, formati sul metodo di rilevazione statistica SQC – Statistical Quality Control e organizzati in team;
· nelle proposte dei lavoratori di soluzioni e nuovi standard recepiti sia dall’organizzazione
· collaborazione a tutti i livelli nella catena del valore aziendale (azienda e fornitori).
Il passaggio dal Fordismo al Postfordismo, caratterizzato dal Toyotismo è stato determinato da una serie di cambiamenti ed evoluzioni avvenuti nelle organizzazioni, quali:
· organizzazioni gerarchiche à organizzazioni più partecipative e integrate
· mansioni semplici e ripetitive à mansioni più complesse e dinamiche
· lavoro individuale à lavoro di gruppo
· lunghe catene decisionali à organizzazioni piatte
· organizzazioni burocratiche à organizzazioni flessibili
· orientamento all’efficienza à orientamento all’efficacia
· concorrenza e conflitto à collaborazione
· conformità ad uno standard à sviluppo continuo di nuovi standard

Questo, secondo Argyris e Schon, docenti universitari americani, ha comportato il passaggio da una forma di apprendimento a giro singolo o single loop ad una forma definita a giro doppio o double loop, utile in un’ottica di una patrimonializzazione della conoscenza acquisita.


Nella prima forma di apprendimento l’individuazione e la correzione di errori non pone in discussione gli aspetti chiave della mappa cognitiva, infatti quello che si imparava nell’organizzazione di impostazione Fordista era solo la memorizzazione di standard da mettere in atto, senza nessuna possibilità di prevedere o poter offrire un’alternativa. Nella seconda forma di apprendimento, invece, la scoperta e la correzione di errori produce un mutamento della mappa cognitiva e comporta l’individuazione di un’azione appropriata a questa nuova configurazione. Questo era quello che avveniva ai membri dell’organizzazione configurata secondo i principi del Toyotismo, i quali potevano capire se modificare lo standard imparato e quindi contribuire al miglioramento dei processi aziendali.

Ma la storia del knowledge management vero e proprio ha inizio in tempi più recenti. Nel 1986 Karl M. Wiig, Presidente del Knowledge Research Institute, durante una conferenza allestita dall’Organizzazione Internazionale dei Lavoratori delle Nazioni Unite, enunciò i principi del knowledge management, termine da lui coniato. Da quel momento l’argomento iniziò ad interessare importanti multinazionali. Nel 1991 Harvard Business Review, prima rivista di management del mondo, pubblicò il primo articolo dedicato alla disciplina di Nonaka e Takeuchi e nel 1993 uscì “Knowledge Management Foundations: Thinking about Thinking – How People and Organizations Create, Represent, and Use Knowledge”, Volume 1° della Knowledge Management Series di Karl Wiig. Nel 1994 ci fu la prima conferenza sul tema dal titolo "Knowledge management network". Nel 1995 fu pubblicato il libro di Nonaka e Takeuchi “The Knowledge Creating Company”, considerato un punto di riferimento per tutti gli studiosi e appassionati della materia.

Con il termine Knowledge Management, letteralmente si intende “gestire la conoscenza”. Tenendo conto, in senso lato, che “management” vuol dire avere il controllo di qualcosa, che poi è reale fine ultimo di tutte le attività che sono mirate al “gestire”, si può già intuire cosa comporti realizzare il knowledge management in ambito organizzativo. Per poter spiegare cosa si intenda in concreto per “gestire la conoscenza” nelle organizzazioni, è opportuno partire da alcune definizioni di Knowledge Management date esimi studiosi:
Il KM è l’arte del creare valore dalle risorse intangibili di un’organizzazione” (Sveiby,1996);
Knowledge Management significa identificare, gestire e valorizzare cosa l’organizzazione sa o potrebbe sapere: skill ed esperienze delle persone, archivi, documenti e biblioteche, relazioni con i clienti e fornitori e altri materiali archiviati in database elettronici”(Davenport e Prousak, 1998);
Il KM riguarda le questioni critiche dell’adattamento organizzativo, la sopravvivenza e la competenza di fronte al crescere e discontinuo cambiamento ambientale. Essenzialmente, esso rappresenta i processi organizzativi che cercano una combinazione sinergica tra capacità di IT di elaborare dati e informazioni e la capacità creativa e innovativa degli esseri umani” (Malhotra, 1998);
Il knowledge management può essere definito come la costruzione, il rinnovamento e l’applicazione della conoscenza finalizzata, in modo sistematico ed esplicito, a massimizzare l’efficacia dell’organizzazione derivante dalla conoscenza stessa e dagli altri asset del capitale intellettuale. Include l’analisi, la sintesi, la verifica e l’implementazione dei cambiamenti correlati ai flussi di conoscenza coerentemente con gli obiettivi dell’organizzazione. Comprende tutte quelle attività necessarie per facilitare il lavoro direttamente collegato con la conoscenza e non può prescindere dall’acquisizione di una mentalità della gestione degli asset legati alla conoscenza, richiesta per creare, mantenere e utilizzare un capitale intangibile appropriato.”(Wiig, 1999).

In sostanza, dato che per il KM i punti cardine sono le persone, i processi e la tecnologia, si può definire come “l’insieme di risorse umane, strumenti tecnologici e metodologie per la creazione, la cattura, l’organizzazione, l’immagazzinamento, lo scambio, la diffusione, la riutilizzazione e l’appropriazione della conoscenza delle organizzazioni”. È un processo che comporta sia “relazione” che “selezione”.
È possibile individuare due fasi che corrispondono a due stadi diversi della storia del knowledge management:

· Il knowledge management di prima generazione à in cui è primaria la focalizzazione sulla gestione dell’informazione.
L’obiettivo del knowledge management è pragmatico: migliorare l’efficienza dei gruppi collaborativi tramite l’esplicitazione e la condivisione della conoscenza che ogni membro matura nel corso del suo percorso professionale. I primi investimenti si concentrano soprattutto sullo sviluppo dei mezzi per rendere veloce e semplice l’archiviazione, la descrizione e la comunicazione di dati e informazioni. È una prima fase, quella della first generation, che tende a ridurre il knowledge mangement alla sua componente strumentale, l’information technology, fondamentale per la sua realizzazione, ma che non ne esaurisce le potenzialità.


· Il knowledge management di seconda generazione à in cui è primaria la focalizzazione sulla gestione della conoscenza.
Il “ciclo della conoscenza” non può fermarsi alla trasmissione di dati o di informazioni, come vorrebbe il knowledge management di prima generazione. Ma è un ciclo che prevede un processo di elaborazione dell’informazione, come sostengono Nonaka e Takeuchi, che conduce alla consapevolezza e conoscenza vera e propria e quindi ad un percorso di adattamento alla realtà esterna. La relazione tra dati da trattare e conoscenza può essere rappresentato con forma una piramidale, come si può vedere nella figura, essendo il rapporto tra dati, informazione e conoscenza di tipo gerarchico.



Alla base della piramide troviamo i dati, che rappresentano il materiale “grezzo” e abbondante dell’informazione, ridondante, proveniente da fonti eterogenee, unità informativa dotata di senso, definito e non ambiguo, con una connotazione oggettiva. Poi troviamo l’informazione, che è data dai dati opportunamente selezionati e organizzati riferiti ad un certo contesto problematico. A questo livello avviene la comprensione delle relazioni tra i dati e la costruzione di modelli mentali. Più in alto c’è la conoscenza, cioè l’informazione rielaborata e applicata alla pratica. È un sistema organizzato di informazioni in grado di produrre know-how (saper fare tecnico-pratico) e know-why (conoscenza concettuale e interpretativa). E’ il livello della comprensione delle strutture e dei rapporti causa-effetto. Ed infine, al vertice la saggezza, ossia la conoscenza che deriva dall’intuizione e dall’esperienza. È il momento della consapevolezza, il livello della comprensione dei principi e della formazione degli archetipi, e quindi della decisione. La seconda fase del knowledge management si focalizza su come poter mettere a servizio di tutta l’azienda le conoscenze professionali specifiche di ogni membro, al fine di migliorare l’efficienza e l’efficacia.

Questa logica spinge il knowledge management a diventare un sorta di “filosofia” della collaborazione e della condivisione negli ambienti di lavoro. Ma può incontrare alcuni ostacoli, tra i quali una certa resistenza interna a rilasciare informazioni specifiche, trasferendo il know how raggiunto in determinati ambiti, per una sorta di paura di perdere il “potere” connesso al possesso della conoscenza acquisita. In altri termini, la crescita dell’organizzazione viene vissuta quasi come un impoverimento personale. La conoscenza viene vista come una sorta di "bagaglio" personale che chi la detiene può portare via quando lascia l'azienda, arrecandole un danno economico. Invece, quello della conoscenza è un ciclo che può portare alla produzione di nuova conoscenza solo tramite la condivisione e l'elaborazione di informazioni, per innescare quella che è stata definite la “spirale della conoscenza organizzativa” e di conseguenza l’apprendimento organizzativo, considerato un must per le organizzazioni che vogliono eccellere ed essere competitive.