venerdì 18 dicembre 2009

Gruppi: aspetti da considerare e competenze da sviluppare.

Contributo della Dott.ssa M. Laura Baronti Marchiò, Resp. Sviluppo Risorse Umane di Quattroemme.
Segue da http://bkmquattroemme.blogspot.com/2009/12/limportanza-del-team-building-nel.html

Parlando di gruppi e di competenze chiave da sviluppare nell’ottica del ‘team building’, si fa sempre più con chiarezza riferimento all’importanza che i singoli membri posseggano capacità di tessere relazioni, orientamento agli obiettivi, sensibilità organizzativa, capacità di ascolto attivo ed empatia e soprattutto flessibilità e capacità comunicative. Il motivo possiamo ritrovarlo nel concetto stesso di gruppo e soprattutto nelle principali caratteristiche che lo contraddistinguono.

La psicologia sociale ci dice che si può parlare di gruppo quando un' aggregazione di persone presenta le seguenti caratteristiche:

· Relazioni tra i membri che possono essere dirette (nel caso di piccoli gruppi che hanno interazioni frequenti e faccia-a-faccia) o indirette ma ugualmente pregnanti per il senso di appartenenza degli individui come nel caso delle identità etniche, religiose, politiche, le comunità di pratica anche geograficamente disperse, etc;

· Perseguimento di uno scopo comune, che crea interdipendenza fra gli individui e azioni coordinate in vista degli obiettivi da raggiungere;

· Consapevolezza dei membri di far parte di quel determinato gruppo, cioè la percezione di avere una identità comune;

· Riconoscimento delle persone che si sentono parte di un gruppo e sono definite anche dagli altri, gli esterni, come appartenenti ad esso;

· Sentimenti associati all’appartenenza che generalmente sono di tipo positivo (soddisfazione, gratificazione, orgoglio, etc.) ma che possono includere anche connotazioni negative, soprattutto nelle fasi che precedono il ritiro e l’abbandono del gruppo;

· L’esistenza di una struttura interna, fatta di ruoli, norme, posizioni di potere che perdurano nel tempo.

E’ comunque importante considerare che la dimensione di un gruppo gioca un ruolo importante nell’ambito delle relazioni che si instaurano tra i membri e delle dinamiche che regolano il senso di appartenenza e il riconoscimento interno ed esterno. In sintesi, per quanto riguarda la numerosità del gruppo, si fa distinzione tra:

· Piccoli gruppi, sono quelli non troppo numerosi, i cui componenti interagiscono frequentemente fra di loro ed in cui vi è un certo livello di strutturazione interna. L’esempio più tipico di piccolo gruppo è quello di tipo faccia-a-faccia, in cui tutti i membri hanno relazioni dirette e continuative tra di loro. Piccoli gruppi sono le classi scolastiche, i team di lavoro, le compagnie di amici nell’adolescenza, una compagnia teatrale, etc.

· Grandi gruppi, sono invece di dimensioni ampie, tali da non consentire l’interazione e la conoscenza diretta fra tutti i componenti, per quanto vi siano livelli di strutturazione interna (norme, leadership, ruoli), condivisione d’identità e aspetti di unione tra i membri, almeno in determinate circostanze. Esempi di grandi gruppi sono le organizzazioni sociali di vario tipo (religiose, politiche, organizzative etc.).

Entrambi i due tipi di gruppi sono ugualmente interessanti per comprendere le condotte individuali dato che anche l’appartenenza ad un grande gruppo, come quello rappresentato da un’azienda, può avere risvolti estremamente rilevanti per il comportamento delle persone.

Sinteticamente e al solo scopo di completare il quadro generale sul concetto di gruppo, ritengo utile aggiungere che un’altra caratterizzazione significativa dei gruppi è relativa alla volontarietà (gruppi di amici, di volontariato sociale, culturali, etc.) o alla obbligatorietà (gruppi di lavoro) che sta alla base della loro costituzione. Ma anche al loro essere gruppi di fatto, cioè gruppi cui si partecipa senza averlo scelto in modo specifico o senza essere stati obbligati a farlo (comunità di pratica, gruppi virtuali di discussione su internet, etc.), gruppi informali che nascono spontaneamente (compagnie di amici) e gruppi formali che nascono sotto un’egida istituzionale (gruppi sportivi, parrocchiali, scoutistici, culturali, ricreativi di vario genere). In questi ultimi la partecipazione non è obbligata, ma se si decide di affiliarsi l’individuo deve adattarsi ad un apparato di regole e di norme deciso istituzionalmente.

Un’ultima distinzione può essere poi fatta tra gruppi primari e secondari. I primi si distinguono per il loro significato psicologico, per le forti relazioni tra i membri ed il loro peso sull’identità degli stessi che si sentono riconosciuti come persone e che nel gruppo trovano soddisfacimento dei loro bisogni, mentre i secondi hanno una caratterizzazione più formale ed istituzionale, in cui i partecipanti hanno ruoli definiti esternamente e contribuiscono al perseguimento di obiettivi decisi dal gruppo stesso. In essi il senso di appartenenza non ha risonanze forti come nel primo caso.

Non è comunque facile fare una distinzione precisa tra questi due ultimi tipi di gruppi ed è quindi preferibile parlare di primarietà che indica la possibilità di avere nel gruppo relazioni intense, dirette e non costrette in limiti formali e secondarietà con cui ci si riferisce invece a caratteristiche più impersonali, ad un più forte intervento di limiti formali e definiti esternamente. In ogni gruppo, formale e informale, imposto o volontario, possono coesistere elementi di primarietà e secondarietà. Per esempio, in un gruppo che nasce sotto un’egida istituzionale come un gruppo di lavoro in un’azienda (gruppo secondario) possono nascere anche forti legami interpersonali e un senso di appartenenza che inducono i membri ad impegnarsi anche oltre il loro mandato istituzionale, connotando di primarietà questo team lavorativo.


(Speltini G., Stare in gruppo, Il Mulino, Bologna, 2002)
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Le moderne teorie di gestione delle organizzazioni fondate sulla centralità strategica della Persona, auspicano lo svilupparsi di tale senso di appartenenza in quanto di sostegno alla motivazione delle Risorse Umane e alla focalizzazione dei team sul raggiungimento di livelli elevati di produttività ed efficacia. In tale ottica, la formazione orientata al ‘team building’ e l’attenzione dedicata alla costruzione di gruppi di lavoro efficaci, efficienti, performanti e coesi rappresenta a livello organizzativo non solo una sfida strategica ma soprattutto una voce di investimento giustificata dalla necessità di mantenere alto il livello di competitività dell’azienda in uno scenario di mercato altamente mutevole e sfidante.

Saper leggere ciò che avviene nei gruppi in cui si opera, avere la competenza sociale per agire ed essere propositivi nel gruppo, sviluppare le competenze relazionali orientate al sostegno e alla motivazione dei propri collaboratori costituiscono sempre più alcuni degli elementi fondamentali dei profili professionali ricercati da parte delle aziende specie in coloro che ricoprono ruoli di coordinamento e management. In tale direzione si orientano le attività di counseling aziendale che sempre più trovano spazio all’interno delle organizzazioni allo scopo di orientare e sostenere i manager nell’arduo quanto strategico compito di gestire e motivare i propri team.

venerdì 11 dicembre 2009

L'importanza del team building nelle organizzazioni per la creazione dell'innovazione.

Contributo della Dott.ssa Maria Laura Baronti Marchiò
Si occupa di formazione, recruitment e organizzazione dal 1983. Specializzata nella realizzazione dei Bilanci di Competenze, Carreer Counseling e in progetti di contenimento dello stress in ambito lavorativo in ottemperanza alle nuove normative sulla Sicurezza sui luoghi di lavoro. Studi in Scienze della Formazione e Sviluppo Risorse Umane, Counselor a mediazione espressiva con diploma internazionale EAC, Business e Corporate Coach e PNL Practitioner. Per più di 10 anni Responsabile della formazione di Nica Diffusione Informatica. Nel 1995 ha fondato Team Up Srl e si è dedicata alle tecnologie e metodologie di e-learning/groupware per il supporto del lavoro collaborativo specie in ambito farmaceutico. Dal 1998 impegnata nella formazione per lo sviluppo di ‘soft skills’ e teambuilding. Attualmente Responsabile dello Sviluppo Risorse Umane di Quattroemme.

E’ interessante osservare che benché la nostra vita di individui singoli trascorra transitando da un gruppo all’altro sin dai primi anni di vita, ci preoccupiamo, in fin dei conti, sempre troppo poco di imparare a stare in gruppo e a relazionarci con gli altri. Proprio in un’era in cui il social networking sembra rappresentare la nuova frontiera del comunicare e dell’essere connessi alla comunità, in cui percepiamo che la tecnologia faciliti in modo esponenziale la possibilità di tessere delle relazioni, in definitiva, spesso perdiamo di vista la dimensione umana dei membri delle comunità alle quali apparteniamo (famiglia, amici, azienda etc.) e non teniamo conto che ciò che accade nel reale in termini relazionali si ripropone anche nel virtuale anche se con connotazioni e dinamiche leggermente diverse influenzate dal mezzo di comunicazione utilizzato.

Porsi il problema di come ci aggreghiamo, ha a che fare, intanto, con il considerare, senza voler fare un discorso semplicistico quanto ovvio, che i gruppi sono alla base della nostra vita sociale e che la nostra specie - la storia ce lo dimostra - ha potuto sopravvivere, progredire, costruire grandi città e anche distruggerle in funzione dell’incontro tra individui e della capacità che essi hanno avuto di aggregarsi, comunicare tra loro, interagire e relazionarsi, scambiarsi e condividere informazioni e collaborare alla risoluzione di problemi di tutti i tipi, dai più piccoli e quotidiani ai più grandi e complessi. E’ nell’ambito di tali processi di aggregazione e comunicazione che la specie umana si è evoluta e con essa la conoscenza, la scienza, la cultura, l’arte e tutto ciò che la creatività dell’uomo è riuscita a produrre.

Quindi, così come, in base a quanto ci dice WatzlawickNon si può non comunicare”, oggi più che mai non si può non ottimizzare come ci relazioniamo con gli altri, soprattutto perchè l’altro rappresenta, sin dalla nostra nascita, il mezzo primario attraverso il quale conosciamo noi stessi. Se è vero questo, non possiamo non porci il problema di come entriamo in relazione con gli altri e di cosa possiamo fare per apprendere modi nuovi per gestire tali relazioni sia nel privato che, a maggior ragione, nei contesti organizzativi. In questi ultimi, la natura e la qualità delle relazioni tra individui all’interno dell’organizzazione, sono spesso fortemente connesse al vantaggio competitivo e al successo dell’azienda stessa e quindi su di esse vanno fatti investimenti adeguati sia individuali che collettivi.

La psicologia sociale, pur avendo sempre dato una maggiore attenzione ai fenomeni associati alle relazioni diadiche o interpersonali, si è occupata di studiare i processi di gruppo cioè le dinamiche in base alle quali essi si formano, si sviluppano e si sciolgono e gli effetti positivi e negativi che essi determinano a livello sociale. L’individuo, la società, ma anche le aziende, vanno presi in considerazione nelle loro reciproche interrelazioni, per cui se è vero che l’individuo è profondamente influenzato dal contesto in cui vive, dall’altro è ugualmente vero che egli è in grado di influenzare il proprio ambiente sociale con i propri comportamenti. Questa tesi parte dal presupposto che gli individui mutando a livello individuale sono in grado di mutare gli assetti sociali se, aggregati in gruppi, condividono quanto meno il processo di cambiamento che porta alla generazione di nuove idee e nuovi comportamenti.

Anche in ambito organizzativo, i gruppi sono una grande forza di mutamento, dei microcosmi da cui possono partire pratiche che contribuiscono al progresso e anche al regresso di intere organizzazioni, da cui è importante che scaturiscano idee innovatrici che contribuiscano alla crescita e competitività dell’azienda a cui appartengono. Si è quindi fatta strada anche a livello organizzativo, la convinzione che i gruppi non sono semplici aggregati di individui anonimi, ma sono organismi vivi con una loro traiettoria evolutiva fortemente connessa ad una realtà esterna in cui domina, oggigiorno, la non linearità, la discontinuità e la mutevolezza, una velocità di cambiamento che costringe individuo, gruppi e organizzazioni intere ad un rapido reinventarsi per poter stare al passo.

A questo proposito la formazione e le strategie organizzative orientate al team building’ sono da considerarsi più che mai vincenti nell’ottica di generare valore all’interno dell’azienda, un valore a sostegno di una gestione della conoscenza che passa sicuramente attraverso la condivisione dei vissuti esperienziali dei singoli. Il valore di una formazione orientata al ‘team building’ consente alle persone di acquisire consapevolezza delle proprie capacità, riconoscere quelle altrui e imparare a prendere decisioni di gruppo, responsabilizzandosi.
Una caratteristica comune a molte attività di ‘team building’ è la mancanza di “barriere d’ingresso”: ogni persona può dare il suo contributo poiché non servono competenze specifiche per partecipare. Spesso le aziende ricorrono a questa soluzione solo quando si trovano di fronte ad un gruppo costituito da poco o sotto stress o comunque con un rendimento inferiore al potenziale complessivo degli individui e non sempre considerano che, viceversa, investire in modo focalizzato in ‘team building’ significa investire comunque sull’organismo azienda fornendogli linfa vitale per creare un solido vantaggio competitivo.

Nell’ambito delle attività di ‘team building’ è importante proporre situazioni creative o di intrattenimento poiché, in questo modo, si stimola la socialità dell’individuo e l’uso del pensiero divergente. Come sostiene Winnicott l’ambiente di gioco è il mondo del ‘come se’ in cui tutto è possibile e nel quale possiamo provare ad agire comportamenti nuovi che nella realtà quotidiana non avremmo magari il coraggio di agire. Il farlo in un ambiente protetto ci consente di sperimentare ‘come sarebbe se’ e interiorizzare la nostra capacità di cambiare. Attraverso i ‘giochi d’aula’, si abbattono in modo naturale possibili resistenze e si persegue l'obiettivo di insegnare a ciascun componente del gruppo a considerare ogni punto di vista proposto dai colleghi come un punto di forza del team e il gruppo come un'unica mente che lavora per il raggiungimento dell'obiettivo comune.
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venerdì 4 dicembre 2009

I nuovi confini organizzativi

«Liquido» secondo Zygmunt Bauman , che ha introdotto l’aggettivo nella Teoria sociale, descrive la precarietà e l’incertezza della condizione umana moderna, che distrugge legami e relazioni e nella quale gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi. Tutto invecchia precocemente, prevale la vulnerabilità e perfino la paura. E’ il Runaway world di Giddens, descritto in Runaway World: How Globalization is Reshaping Our Lives nel 2003,

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un mondo inafferrabile che cambia vorticosamente o la BLUR Economy di Davies e Mayer di cui gli autori parlano nel libro Blur: The Speed Of Change In The Connected Economy del 2000,

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che è un’economia dall’apparenza confusa, con una forma indistinta, fatta di “ragnatele” sempre più ampie e permeabili, in un mondo dai confini fluidi, privo di certezze, complesso, turbolento, carico di rischi, ma anche di opportunità, in cui cade la separazione tra prodotto e servizio, tra venditore e consumatore, in cui emerge la figura del prosumer (producer+consumer), tra fornitore e distributore, tra alleato e concorrente (co-opetition) e in cui la conoscenza è il vero asset e il lavoratore colui che contribuisce a creare il valore delle organizzazioni.

Nei suoi ultimi lavori, Bauman ha tentato di spiegare la “postmodernità” usando le metafore di modernità “liquida” e “solida”. Nei suoi libri sostiene che l'incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori, per cui si parla di marketing liquido. Una vita “liquida” sempre più frenetica è costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa. L'esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull'estraneità al sistema produttivo o sul "non poter comprare l'essenziale", ma sul "non poter comprare per sentirsi parte della modernità". L'individuo si sente frustrato se non riesce a sentirsi "come gli altri", se non si sente accettato nel ruolo di consumatore.

Bauman definisce Internet un mondo di solitudine, paura e narcisismo, il luogo in cui trovare una compensazione per le sconfitte e le umiliazioni causate dalla vita "reale". Per Bauman, la rete è solo "una potente via si fuga dalle difficoltà e dalle tribolazioni della vita reale". Una sorta di companatico ultratech del nuovo millenno, l'ultimo male del lusso che serve a milioni di persone solo come panacea di un fortissimo disagio psicologico che affligge la società. Passando alla disamina del web 2.0 e del social network, lo definisce un mondo popolato da individui narcisi, i quali sfogano "la loro passione politica senza impegnarsi, in processi di partecipazione quasi mai efficaci". E per i blogger, che sono un po' il simbolo di questo nuovo web, arriva la sua considerazione più dura:
“credo che l’unica funzione dei blog sia di consentire agli utenti di vedere
celebrati se stessi e i propri interessi al pari dei ‘personaggi tv’, secondo i
parametri con i quali obbligatoriamente oggi si misura la qualità e la rilevanza
della realtà nel suo complesso”.
Una sorta di cannibalismo tra simili portato all'ennesima potenza.

Queste considerazioni possono essere valide nella dimensione “casalinga”, ma in ambito organizzativo, in realtà, la visione apocalittica che ne viene data ha il suo rovescio della medaglia. Il partecipare è soprattutto opportunità per ottenere (lato organizzazione) e per raggiungere (lato singoli individui) una maggiore consapevolezza e responsabilità. Gli stessi strumenti che in una sfera individuale possono risolvere il bisogno di uscire dall’isolamento, producendo paradossalmente esattamente l’opposto, attraverso l’alimentazione e la creazione di un surrogato di vita sociale che in realtà è solo “virtuale”, in ambito organizzativo producono le condizioni affinché possano essere agevolati gli scambi, andando a governare un flusso di comunicazione che esiste e che va gestito, affinché non vengano disperse le potenzialità insite.

Le organizzazioni sono in continuo movimento poiché agiscono in un ambiente che è in continuo movimento e sono quindi definite "liquide" al pari dell'amnbinete nel quale si sviluppano, perché caratterizzate da relazioni anch'esse in movimento, che ne ridefiniscono i confini stessi. In questo senso l’organizzazione è liquida perché le condizioni in cui le persone si trovano ad operare si modificano con una velocità maggiore rispetto alla capacità delle persone stesse di consolidare abitudini e metodi. Questo fluire continuo di trasformazioni aumenta il senso di precarietà e incertezza, di timore di rimanere indietro.

L’apprendimento in questo contesto diventa strategico e assume sempre più la caratteristica di un processo. Per questo, superando i vecchi paradigmi che vedevano l’organizzazione come un’entità rigida, burocratizzata e schematizzabile, in una realtà così mutevole il business knowledge management, ossia la gestione della conoscenza nelle imprese finalizzata alla loro prosperità, rappresenta uno strumento per contenerne la vulnerabilità che ne consegue. Le tendenze future e gli ambiti di sviluppo di questo approccio coinvolgono sia gli aspetti tecnologici che quelli relativi alle persone, sempre nell’ottica di individuare ciò che serve ed è utile per creare un modus operandi adeguato alle esigenze operative e strategiche delle imprese.

giovedì 26 novembre 2009

Le fasi per la realizzazione di un progetto di Business Knowledge Management

Un progetto di Business Knowledge Management prevede un approccio per gradi con una forte spinta che parta dai vertici aziendali e che guardi all’organizzazione sia nei singoli elementi che la compongono, sia nei processi, nei flussi comunicativi, di scambio e nelle relazioni che l’attraversano.

I momenti salienti per realizzarlo possono essere individuati in:
  1. Analisi delle esigenze e delle motivazioni di fondo;
  2. Analisi della struttura organizzativa;
  3. Definizione degli obiettivi di progetto, secondo una pianificazione step by step che sia anche lungimirante;
  4. Individuazione dei benefici attesi e del ROI – Return On Investment per ogni singola area di intervento e nel complesso;
  5. Valutazione dell’impatto organizzativo;
  6. Individuazione della soluzione;
  7. Descrizione della soluzione, tendenzialmente finalizzata alla creazione di un virtual workspace che sia composto da strumenti collaborativi, di analisi e di raccolta e gestione dei dati, quali ad esempio:
    - strumenti di comunicazione sincrona e asincrona (ad es. posta elettronica, instant messaging, forum);
    - un sistema di posta elettronica che sia al contempo collaborativo e integrato all'interno della piattaforma di gestione del knowledge aziendale;
    - un sistema di gestione, archiviazione e stroicizzazione degli allegati di posta elettronica (in genere documenti di rilevanza aziendale che spesso vengono archiviati secondo criteri personali in cartelle non condivise);
    - un sistema di document e content management che rispetti i workflow relativi alla redazione, approvazione e pubblicazione dei documenti, che sia flessibile e strutturato in modo da poter essere configurato per trattare tutte le tipologie documentali;
    - un sistema di protocollazione della corrispondenza in entrata, in uscita, interna, di fax, di e-mail, dei documenti anche contenuti in pratiche;
    - un corporate portal, inteso nell’accezione più evoluta del termine, punto di accesso dell'Intranet aziendale;
    - un virtual desk, ambiente di lavoro personale dove sia possibile accedere a tutti gli strumenti collaborativi e applicativi secondo un accesso personalizzato;
    - un motore di ricerca testuale e semantico, che agisca su tutto il patrimonio aziendale e sulle risorse esterne;
  8. Definizione di un piano di comunicazione interna, mirato a promuovere un intervento di tipo “educativo” che agevoli il nuovo modus operandi;
  9. Definizione di interventi di tipo “formativo”, mirati allo sviluppo di competenze manageriali e "trasversali" per gestire il cambiamento e di competenze tecniche per l’utilizzo dei nuovi strumenti.

venerdì 20 novembre 2009

Gli strumenti per il Knowledge Management nelle organizzazioni

Gli strumenti per il knowledge management sono strumenti al servizio dell’impresa “estesa”, delle relazioni e dei relativi flussi comunicativi e procedurali che la caratterizzano. Sono strumenti di tipo tecnologico, come ad esempio le tecnologie web-based (reti informatiche Intranet, Extranet, Internet, database o repository dove vengono immagazzinati dati e informazioni, Decision Support Systems, sistemi per la Business Intelligence, sistemi gestionali ERP – Enterprise Resource Planning, tecnologie per la comunicazione, come la posta elettronica) e di tipo organizzativo, focalizzati ad ottenere dei risultati attraverso lo scambio di conoscenze in nuovi contesti lavorativi finalizzati al raggiungimento di determinati obiettivi, quali ad esempio le comunità di pratica.

Nei post che seguiranno, verrà fatta una panoramica degli strumenti tecnologici, definiti KMS - Knowledge Management Systems, classificati da Alavi M. e Leidner D. E. nel 2001 in “Knowledge Management and Knowledge Management Systems: conceptual foundations and research iussues” ai fini dell’implementazione di un progetto per il knowledge management nelle organizzazioni.


Secondo tale classificazione queste tecnologie hanno tre ruoli fondamentali:

  • codificare e far condividere le best practices

  • creare mappe di expertise o mappe della conoscenza

  • creare e supportare i knowledge network






Esempi di Knowledge Management Systems sono:

  • Intranet ed Extranet

  • Corporate Portal o Enterprise Portal

  • Sistemi di Information Retrieval e Search Engines

  • DBMS – Database Management Systems combinati con Intranet

  • Computer Mediated Communication

  • Sistemi ERP - Enterprise Resource Planning

  • Sistemi per il Groupware e la Collaboration

  • Sistemi di Business Intelligence

  • Expert Systems, sistemi esperti per la gestione delle best practices aziendali in sistemi “if-then”

  • Sistemi di expertise mapping/seeking

  • RFID – Radio Frequency Identification

  • Tecnologie Web 2.0

venerdì 13 novembre 2009

Il Business Knowledge Management: un obiettivo realizzabile

Il knowledge management va visto come risorsa e opportunità per le persone, le funzioni aziendali, le organizzazioni. Gli approcci più recenti al management della conoscenza e dell’innovazione hanno enfatizzato la natura cooperativa del processo innovativo e la necessità, da parte delle imprese, di mettere in atto strategie di collaborazione e condivisione delle rispettive competenze e dei risultati dei loro investimenti in innovazione, al fine di migliorare la loro capacità innovativa, capitalizzando sull’esperienza accumulata non solo individualmente, ma all’interno di una comunità di attori economici rilevanti.

Alcuni dei contributi più significativi in questo senso vengono da:

Moore J. F. che in un articolo pubblicato su Harvard Business Review del 1993 intitolato “Predators and Prey: a new ecology of competition”, sviluppando la nozione di business ecosystem, ha chiarito che la competitività delle imprese si fonda su processi di collaborazione tra produttori, fornitori e clienti riguardo all’introduzione di nuovi prodotti.

Chesbrough H. W. e Vanhaverbeke W., West J. i quali in “Open innovation: researching a new paradigm”, Oxford University Press (2006), articolano un modello dei processi innovativi aperti in cui per le imprese risulta più vantaggioso applicare strategie e strumenti di knowledge sharing piuttosto che tentare di proteggere il loro know-how e appropriarsi dei risultati degli investimenti in R&D in modo esclusivo.

Amin A. e Cohendet P. che in “Architectures of knowledge: firms, capabilities and communities”, Oxford University Press (2004) propongono la nozione di communities of practice quale forma organizzativa distribuita della conoscenza e quella di management by communities per descrivere la gestione della conoscenza, prevalentemente tacita, e dei processi di apprendimento dal basso o learning by doing.

Le aziende si trovano a competere su scenari sempre più vasti e pregne di relazioni: con il mercato, con i clienti, con i fornitori, con i partner produttivi e commerciali, con le istituzioni. Inoltre le aziende possono essere composte da sedi centrali, filiali, consociate dislocate geograficamente. Da qui la necessità pressante di dotarsi di struttura e strumenti in grado di agevolare la comunicazione, l’interazione, la condivisione, l’integrazione al di fuori dei confini spaziali.

Nell’azienda estesa le relazioni, interne ed esterne, hanno un ruolo primario, così come il fare sistema e mettersi in rete (networking). I processi intra-aziendali mirano al superamento delle barriere tra le unità organizzative interne, mentre la creazione e la gestione dei processi inter-organizzativi pone l’azienda in intensi network, nell’ambito dei quali potrà realizzarsi, in alcuni casi, un misto di cooperazione/competizione detta anche co-opetition.

La gestione della conoscenza, alla base della creazione del valore delle organizzazioni, è strettamente legata alle competenze individuali e organizzative che le permettono di svolgere i propri processi in modo performante e di essere quindi competitiva. L’azienda può essere definita come un serbatoio di competenze individuali che, in virtù delle relazioni tra individui, consente di sedimentare “nuova conoscenza”. Questa nuova conoscenza, costituita da informazioni finalizzate, non è più patrimonio dei singoli, ma diviene patrimonio aziendale e si manifesta nello svolgersi armonioso e integrato delle attività dei processi aziendali, che rappresentano le competenze organizzative. Questa conoscenza non si consuma, ma cresce con l’intensificarsi del suo uso (learning by doing + learning by interacting).

I process owner devono creare l’humus sul quale poter far crescere e valorizzare la conoscenza e sul quale gestire la comunità che ne deve usufruire. Tale comunità, così intesa e trattata, risulta costituita dai knowledge workers, i reali detentori, utilizzatori e produttori della conoscenza, coloro che, attraverso i mezzi messi a disposizione dall’organizzazione, mettono in circolo la conoscenza e la rendono utile e riutilizzabile ai fini organizzativi. In questo senso fanno crescere non solo la conoscenza organizzativa, ma anche quella individuale, dalla quale partire per rinnovare e incrementare la conoscenza in uso. Per questo nelle aziende estese il valore è dato da una sapiente gestione della conoscenza e dalla quantità e qualità delle proprie relazioni, che rappresentano il veicolo primario attraverso il quale la conoscenza viene prodotta e trasferita. Gli strumenti che verranno adottati saranno solo dei facilitatori di questa primaria funzione e si plasmeranno secondo i fini aziendali.

venerdì 6 novembre 2009

L’organizzazione virtuale: un modello per gestire il cambiamento

Nuove modalità di lavoro trasformano la collaborazione in innovazione, come illustrato nel white paper del 2008 di IBM – Gartner “Collaboration Strategies Today”. Non tutte le aziende comprendono l’importanza della collaborazione nel rendere possibile l’innovazione e molte sono le resistenze individuali all’interno dell’organizzazione che ostacolano la collaborazione. Le persone sono preziose, quindi, sia per le competenze che possiedono, sia per la capacità di metterle a fattor comune, a servizio dell’intera organizzazione.

Le informazioni interessanti per l’organizzazione, vengono sviluppate attraverso la partecipazione, restano fluide, contestuali e vengono sfruttate per creare opportunità attraverso una continua collaborazione. Si verifica, in questo modo, il passaggio da uno stile di lavoro incentrato sui documenti ad uno stile di lavoro incentrato sulle persone, fattore importante per realizzare un’organizzazione orientata all’innovazione. Questo perché una focalizzazione sui documenti più che sulle persone, finisce per produrre dei contenuti difficili da valorizzare e ricollocare nel contesto organizzativo, mentre una focalizzazione sulle persone permette di fornire, non solo contenuti, ma anche le conoscenze dei singoli, di capitalizzarle e di metterle in correlazione con le informazioni e le idee.

In una organizzazione collaborativa le informazioni vengono messe a disposizione di tutti coloro che ne hanno bisogno. Le modalità lavorative sono “aperte”, rapide, efficienti e vi è compresa la possibilità di individuare e contattare gli esperti delle varie tematiche ai quali far riferimento. Il gruppo, rispettando e valorizzando le diversità legate alle variegate esperienze e competenze, può agire come un’unica entità. Questo modo di operare crea necessariamente nuove relazioni e questo comporta la ridefinizione della stessa organizzazione, della struttura, dei confini, delle interazioni e l’emergere di nuovi ruoli. Viene ridefinita la “catena del valore” e la modalità stessa della creazione del valore. La consapevolezza di agire per obiettivi e fini comuni, secondo valori condivisi, comporta la sensazione di compiere un percorso comune, dove ogni persona dell’organizzazione ha un suo perché e trova la motivazione a “partecipare”.

Con l’affermarsi di queste nuove modalità di collaborazione, le aziende possono consolidare posizioni di concreto vantaggio sul mercato sfruttando il potere di innovazione che ha la conoscenza condivisa, quali, ad esempio, riuscire ad offrire un migliore servizio a clienti o agli altri stakeholders, fornire una risposta tempestiva nella risoluzione di problemi, aumentare il grado di fidelizzazione e di produttività dei dipendenti. Di pari passo, l’evoluzione dell’organizzazione in un' ottica collaborativa non può prescindere, ma anzi è agevolata, dall’evoluzione dell’infrastruttura informatica, ossia del “mezzo” che la rende concretamente possibile. Solo comprendendo questo elemento fondamentale si può configurare, definire e realizzare il nuovo modello organizzativo: l’organizzazione virtuale.

La gestione della conoscenza diviene uno degli elementi più importanti per la competitività delle imprese, in quanto è uno strumento necessario per la creazione di economie di scopo di tipo immateriale, la cui realizzazione implica la creazione di un assetto organizzativo al di sopra e trasversale della singola organizzazione, una sorta di anima dell’impresa, che è appunto la virtual enterprise. Questa è il vero territorio dell’impresa, non è rappresentabile in un organigramma e non è definibile a priori, ma è una realtà in continua evoluzione e ridefinizione, rappresenta il territorio delle “relazioni” che l’impresa tesse nel suo essere e agire, è la cosiddetta “azienda estesa".

Nell’organizzazione virtuale è fondamentale, quindi, sia la struttura relazionale che l’infrastruttura tecnologica e gli strumenti per realizzarla. È un’organizzazione che si deve attrezzare per supportare e agevolare la diffusione di una nuova cultura organizzativa, attraverso l’impiego di tutte le modalità e gli strumenti di comunicazione interna (inter e intra aziendale), sia tradizionali della comunicazione operativa oppure della comunicazione strategica e finalizzata all’apprendimento, sia adottando i nuovi e più idonei strumenti per la comunicazione e per la collaborazione al fine di creare virtual workspaces, veri e propri ambienti di lavoro che offrono alle persone un supporto completo alle loro esigenze di operatività, servizi, comunicazione e gestione della conoscenza.

In “Oltre le Intranet e i Portali: l’emergere dei Virtual Workspace”, Rapporto 2006 della School of Management MIP Politecnico di Milano viene descritto come il virtual workspace abbia un ruolo chiave nel supportare la strategie di passaggio ad una organizzazione virtuale, come ne sia l’elemento caratterizzante, poiché consente di connettere dinamicamente le competenze e di riconfigurare processi e flussi informativi, divenendo così il tessuto abilitante del cambiamento organizzativo e dell’innovazione.

L’organizzazione proiettata in questo tipo di evoluzione/rivoluzione, per far fronte alle difficoltà e alle possibili resistenze, deve intervenire sia “educando” i propri membri ad agevolare il cambiamento, sia “formandoli” sul corretto utilizzo delle nuove piattaforme. L’organizzazione virtuale, per risultare di massima efficacia, deve essere la fotografia della parte relazionale dell’organizzazione reale, ma proprio perché basata su un elemento in continua evoluzione, quali sono appunto le relazioni dell’organizzazione, interne e che con l’ambiente esterno, dovrà necessariamente avere connotati di flessibilità e adattabilità, opportunamente “controllati” e gestiti. In altre parole, l’organizzazione virtuale rappresenta una nuova modalità di esprimersi e di agire delle imprese, secondo quelle che sono le finalità di base dell’organizzazione stessa.

venerdì 30 ottobre 2009

Knowledge Management, Change Management, Creatività e Innovazione

La globalizzazione e i processi di innovazione in atto nel business e nella politica mondiale comportano una maggiore complessità di strategie e soluzioni da adottare. Le organizzazioni riconoscono la necessità di sfidare la complessità dei cambiamenti in atto, focalizzandosi su nuove opportunità di crescita e competitività mediante l’uso di strumenti formativi e tecnologici innovativi e diversificati.

Nell’Economia industriale, basata sulla fabbrica tayloristica, come ha evidenziato Alvin Toffler, futurologo americano che scrisse la “Terza ondata” (1985), i principi predominanti sono:
- specializzazione dei compiti, divisione del lavoro, parcellizzazione delle mansioni, economie di scala (management scientifico);
- standardizzazione dei prodotti, dei sistemi produttivi, delle infrastrutture, dei mercati, dei gusti, dei prezzi, dei linguaggi…;
- sincronizzazione dei tempi, del divertimento, delle vacanze, del gioco, della settimana, dell’anno, della vita;
- concentrazione finanziaria, demografica, produttiva, energetica, ludica, scolastica, penitenziaria;
- centralizzazione del potere, della cultura, delle attività ludiche, politiche, economiche, sociali;
- massimizzazione delle risorse attraverso la produttività, l’efficienza, l’economia di scala.

I valori emergenti nella Società post-moderna o in quella che può essere definita l’Economia dell’informazione, sono:
- terziarizzazione e quindi espansione dell’economia del servizio;
- creatività;
- etica e affidabilità;
- estetica dei prodotti, al contrario del periodo precedente in cui il cliente comprava la funzionalità;
- soggettività e personalizzazione;
- affettività;
- attenzione all’immagine e alla relazione nell’ambiente lavorativo, creazione del “best place to work” per attirare i migliori specialisti e mantenere un clima interno motivante;
- attenzione alla qualità della vita.

L’Economia della conoscenza o BLUR Economy, (Davis – Meyer, “Blur: The Speed Of Change In The Connected Economy”), invece è caratterizzata da:
- velocità del cambiamento, sempre più vertiginosa e che rende tutto immediatamente obsoleto e le cui conseguenze sono: fine dell’equilibrio, cicli di vita accelerati, riduzione del ciclo di vita dei prodotti, breve vita della conoscenza;
- interconnessione sempre più facilitata dalla tecnologia informatica che consente di creare una ragnatela di collegamenti sempre più ampia, eliminando qualsiasi barriera alla comunicazione;
- immaterialità, che coincide con il patrimonio delle idee e della creatività e in un tale contesto conta più del capitale fisico e che comporta un inserimento della componente di servizio nei prodotti, ridondanza delle informazioni, attenzione alla sfera emotiva (marketing esperienziale).

Lo sviluppo tecnologico degli ultimi venti anni ha comportato lo sviluppo delle capacità adattive delle aziende, in quanto continua ad incrementare le possibilità di interconnessione, che, a loro volta, conducono ad una maggiore volatilità. La tecnologia accresce la necessità di sviluppare le capacità adattive e nel contempo ne fa diminuire il costo di apprendimento e acquisizione. Le organizzazioni che vogliono essere adattive, quindi, hanno sempre più la necessità di educare i propri membri al cambiamento e allo sviluppo di tali capacità, che si possono sintetizzare in capacità di:
- abilitare l’autonomia organizzativa, attraverso l’indicazione di poche regole semplici, l’abilitazione di interconnessioni e la libertà di azione, il rilascio di informazioni, l’esplicitazione chiara di caratteristiche l’organizzazione ritiene importante che i suoi membri abbiano;
- ricombinare per inventare, attraverso la modularità e il miglioramento continuo delle piattaforme;
- rendere permeabili le barriere, aumentando il numero e la densità delle interconnessioni, la trasparenza, la promozione delle diversità;
- chiudere i circuiti di feedback, attraverso la misurazione continua, in tempo reale, la misurazione degli intangibili e l’eliminazione dell’anonimato;
- applicare una pressione selettiva, gestendo la propria rete, esigendo innovazioni e miglioramenti continui, spingere a primeggiare nel proprio ruolo i singoli e nel proprio settore l’intera organizzazione;
- vivere sull’orlo del caos che è poi il nostro ambiente naturale, rilevando i cambiamenti esterni e reagendo in funzione di essi, accettando gli squilibri e separando l’esplorazione dallo sfruttamento.

L’innovazione, quindi, non è solo un fatto tecnico, un metodo rigido che determina il successo di un’idea o di un’intuizione, ma è il frutto di un’attitudine mentale, di una predisposizione psicologica che va alimentata con la ricerca, il confronto, lo scambio di più punti di vista e la capacità di adattamento. Il risultato è creare le condizioni affinché le imprese possano agevolare un flusso creativo da cui scaturisce l’innovazione, che va intesa sia in senso stretto sia come nuovo modo di soddisfare un bisogno o una richiesta, sia come nuova funzionalità e nuovo beneficio. Per questo nelle organizzazioni le persone con le loro competenze e relazioni sono divenute l’unità organizzativa fondamentale e l’asse strategico per generare valore, oltre al fatto che si è reso necessario ripensare, in quest’ottica, anche la struttura dell’organizzazione stessa, poiché non si riesce ad essere innovativi verso l’esterno se non lo si è anche all’interno. Tra i fattori che rappresentano un ostacolo all’innovazione troviamo la mancanza di finanziamenti, l’insufficiente flessibilità delle normative, la percezione di un rischio economico, bassi investimenti in tecnologia, la rigidità organizzativa, ma anche e soprattutto aspetti legati alla mancanza di conoscenza sia a livello individuale che organizzativo, quali ad esempio la scarsità di informazioni sul mercato, la mancanza di personale qualificato, la cultura tecnica insufficiente. La strada da percorrere per stimolare l’innovazione mette il knowledge management in un ruolo strategico, imprescindibile e di primaria importanza.

venerdì 23 ottobre 2009

Lo stato dell’arte nelle organizzazioni riguardo ai progetti di knowledge management

I pilastri della moderna organizzazione sono:
  1. il capitale intellettuale,


  2. il capitale relazionale,


  3. il capitale strutturale.

Ogni organizzazione è formata da un insieme di risorse, tangibili e intangibili, il cui valore ci dà una misura del suo potenziale di crescita e sviluppo e garantisce il perseguimento di un vantaggio competitivo sostenibile, così come rileva la prospettiva teorica definita Resource-based theory (RBT). Secondo tale approccio, nell’ottica di fare una distinzione tra risorse, servizi e capacità organizzative, le risorse possono essere definite come un insieme di potenziali servizi, in quanto, utilizzate in modi differenti e tramite combinazioni differenti, possono fornire servizi diversi, assicurando l’unicità dell’organizzazione. Le capacità dell’organizzazione, che derivano dalle risorse, sono, invece, dei flussi, dei processi organizzativi tangibili o intangibili. Il vantaggio competitivo delle imprese dipende dall’eterogeneità di risorse e dalle possibilità di combinazione di queste, che attraverso l’interazione tra i componenti dell’organizzazione, producono le capacità dell’organizzazione stessa. I teorici della RBT hanno il merito di aver individuato nelle risorse e capacità dell’organizzazione le principali fonti di vantaggio competitivo, contribuendo al recupero della dimensione organizzativa rispetto a quella economico-ambientale precedentemente prevalente, spostando l’attenzione dalle risorse alle modalità con cui tali risorse possono essere create per creare il valore dell’impresa.

Una evoluzione della RBT è rappresentata dalla Teoria delle competenze strategiche in cui vengono affrontate sia la dinamica di formazione di tali competenze, sia le caratteristiche che le rendono strategiche e quindi fonte di vantaggio competitivo. Dietro il concetto di capacità e competenze organizzative vi è la modalità con cui le singole risorse vengono combinate ed integrate per il raggiungimento di determinati obiettivi. Queste competenze diventano distintive quando consentono all’impresa di ottenere una posizione di vantaggio competitivo. Il merito di questa teoria è di aver conciliato gli studi sull’apprendimento con la necessità di inserire lo sviluppo della conoscenza in una prospettiva strategica, per cui le competenze organizzative, in particolare il processo di apprendimento, divengono le leve più significative per il perseguimento di un vantaggio competitivo che sia sostenibile.

Le attuali strategie competitive si inseriscono in questo quadro:
- content oriented, per cui il vantaggio competitivo viene ricercato nelle caratteristiche delle risorse controllate dall’organizzazione e nella capacità degli individui di combinarle, mentre i meccanismi di creazione del valore risiedono nel legame che si crea tra risorse, capacità e competenze
- knowledge perspective, focalizzata sull’analisi della risorsa “conoscenza” e sui processi con cui questa risorsa viene generata, trasformata, trasferita, acquisita, utilizzata, diventando una fonte primaria di redditività

La differenza tra i due orientamenti consiste nel considerare determinanti per la trasformazione della piattaforma di conoscenze dell’impresa in meccanismi di generazione del valore le condizioni che consentono di trasferire le conoscenze non codificate più che gli ostacoli al trasferimento delle conoscenze al di fuori dei confini organizzativi. La differenza tra queste due visioni si configura come una dicotomia di content vs. process.
Di conseguenza, come hanno illustrato Hansen e Nohria in What’s your strategy for managing knowledge? , pubblicato nel 1999 su Harvard Business Review, le strategie di knowledge management prevalenti sono:

- la “codificazione”, ossia il fornire informazioni di alta qualità, affidabili e veloci, attraverso sistemi informativi che permettano il riutilizzo della conoscenza codificata. È un approccio “people-to-documents”, per cui la conoscenza, estratta dalla persona che l’ha sviluppata, viene resa indipendente da essa e riutilizzata per vari scopi. Il risultato è la produzione di “oggetti di conoscenza”, quali ad es. piani di lavoro o analisi di segmentazione del mercato, e la costruzione di grandi database basati su documenti e informazioni codificati a livello centrale (information repository). Comporta notevoli investimenti in sistemi di Information Technology ed è prevalentemente un’attività di information management;

- la “personalizzazione”, ossia il fornire soluzioni creative, analitiche e rigorose a problemi strategici di alto livello anche attraverso la mobilitazione di esperti. È un approccio “people-to-people”, focalizzato sul dialogo tra le persone, sulla costruzione di network agevolati dal supporto di una cultura aziendale aperta alla comunicazione, in organizzazioni dove siano istituzionalizzati ruoli ad hoc a supporto dei team di progetto, in cui lo scambio di conoscenza possa avvenire attraverso comunicazioni dirette face to face, via telefono, e-mail e videoconferenze. Comporta moderati investimenti in sistemi IT, orientati a facilitare lo scambio delle conoscenze tacite, nel quale rimane importante il ruolo dell’information repository, ma è soprattutto l’interazione tra le menti delle persone lo strumento necessario per co-creare conoscenza e quindi knowledge management.



Secondo alcune ricerche, in Italia, si evidenzia che la questione della gestione della conoscenza finalizzata alla creazione di vantaggi competitivi è un problema dai confini ancora sfuggenti sul piano teorico. Quello che è emerso si può riassumere nei seguenti punti:

- gli strumenti di ICT non vengono considerati dalle imprese come un fattore attorno al quale procedere a una ridefinizione del loro modello di business, ma le loro potenzialità, insieme a quelle del knowledge management vengono utilizzate come strumenti di miglioramento dell’assetto competitivo e dell’organizzazione aziendale;

- i progetti di knowledge management, per i quali vengono stanziate somme direttamente proporzionali al volume d’affari delle imprese, vengono considerati strategici ai fini del mantenimento della loro competitività;

- i progetti per il km sono promossi, in genere, dall’alta direzione e vedono coesistere fasi di knowledge sharing con fasi di formazione;


- le organizzazioni sono attive nel creare strutture dedicate allo sviluppo di innovazioni e nell’utilizzare la conoscenza “diffusa” per realizzare miglioramenti continui;


- l’implementazione di progetti per il km è incentivata da iniziative interne, volte alla valorizzazione delle esperienze maturate e dalle relazioni con i fornitori, concorrenza e clienti;


- tra gli strumenti prevalenti da impiegare in progetti per il km vengono menzionati posta elettronica, Internet, ERP - Enterprise Resource Planning, Intranet.

venerdì 16 ottobre 2009

Organizzazione e Knowledge Management: una relazione in evoluzione

L’acquisizione e la condivisione delle conoscenze nelle organizzazioni rappresenta una condizione fondamentale per consentire a questa crescita e sviluppo, per creare le basi affinché si possa garantire la longevità dell’impresa stessa.
Secondo varie scuole di pensiero i core components del Knowledge Management, a seconda della prospettiva, sono:
  1. le persone o la cultura
  2. i processi o la struttura
  3. la tecnologia

Come già illustrato, la conoscenza è il risultato di un complesso processo di interpretazione e rielaborazione di informazioni, influenzato dalle proprie cognizioni ed esperienze. La conoscenza aziendale, che costituisce il fondamento delle competenze e delle routines organizzative, è caratterizzata da un grado di tacitness che emerge dal fatto che alcune componenti della conoscenza utilizzata a livello organizzativo non sono sempre esplicitabili in regole formalizzate e che, nello stesso tempo, le regole esplicite sono spesso reinterpretate dalle persone e ricondotte a modalità implicite di comportamento.


Mentre nella società capitalistica la ricchezza delle imprese dipende dal possesso e dal controllo del capitale e da tutte le risorse economico-finanziarie definite “tangibili”, nella società della conoscenza il valore delle imprese dipende dal capitale intellettuale e dagli asset intangibili, che sono il prodotto del capitale intellettuale e dell’interazione tra capitale intellettuale e capitale finanziario. In quest’ottica vanno considerati come intangibles il brand, i brevetti, la customer satisfaction, la customer loyalty, la people retention. Non esiste un’uguaglianza tra capitale finanziario e risorse tangibili e tra capitale intellettuale e risorse intangibili, poiché queste ultime sono il risultato della dinamica del capitale intellettuale e rappresentano la “fotografia” di un dato momento storico dell’organizzazione, così come lo stato patrimoniale rappresenta la “fotografia” dello stato delle risorse tangibili.

Il capitale intellettuale rappresenta la vera fonte di creazione del valore, mentre le ineludibili transazioni economiche rappresentano la sola manifestazione esteriore del valore. Ogni transazione, ogni scambio ha un aspetto monetario e un aspetto legato all’investimento emotivo delle persone, in termini di fiducia, impegno, tempo, motivazione, credenze, atteggiamenti, esperienza. Questo comporta che l’ obiettivo di fondo di ogni organizzazione che miri ad essere longeva è proprio la cura di questi due aspetti interrelati, che, per dirla con una metafora, rappresentano le cosiddette “due facce della stessa medaglia”. L’implementazione di un sistema globale di knowledge management in ambito organizzativo è la strategia e lo strumento per conseguirli.

lunedì 12 ottobre 2009

Obiettivi del Knowledge Management

Lo scenario di riferimento delle aziende è determinato da una serie di macro e micro tendenze, di dinamiche evolutive che inevitabilmente condizionano l’agire e le strategie delle imprese. I principali cambiamenti sono:
  • Globalizzazione dell’economia e conseguente delocalizzazione. È un processo di integrazione dei flussi di capitali, merci, informazioni, persone che ha ridefinito il quadro di riferimento dell’economia mondiale. Perseguendo logiche di global sourcing le aziende, alla ricerca di vantaggi di costo, stanno sempre più delocalizzando gran parte delle attività di produzione. Con l’incremento dell’integrazione politica, economica e finanziaria si è verificato un aumento della concorrenza. Si assiste ad un fenomeno di standardizzazione e adattamento alle forze locali che si sintetizza nel termine glocal, ossia nella capacità delle imprese di coordinare e integrare le competenze a livello mondiale, nel ricercare l’efficienza globale e al tempo stesso di mantenere la flessibilità per fornire risposte differenziate, se richiesto, alle singole esigenze locali di mercato (think global, act local).

  • Innovazione tecnologica e convergenza settoriale. La tecnologia può favorire l’adozione di risposte innovatrici a sollecitazioni del mercato (innovazione market-pull) o, in caso di innovazioni di rottura, può consentire di sviluppare veri e propri nuovi sistemi di offerta (innovazione company-push). Le potenzialità insite nelle nuove tecnologie ICT hanno portato alcune imprese ad adottare un orientamento all’e-business, ossia ad integrare i propri sistemi e processi gestionali nell’ambiente digitale, all’e-marketing e all’e-commerce. In particolare, l’ICT – Information and Communication Technology con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha provocato la cosiddetta “rivoluzione digitale”, che ha comportato un processo evolutivo caratterizzato da tre fasi:
    1. new economy, dove si è assistito ad un’esplosione di strumenti e attività volti ad aumentare la produttività legata alla maggiore capacità di calcolo ed elaborazione delle informazioni;
    2. net economy, definita come "economia dell’interazione", durante la quale si è realizzata la flessibilità digitale ed il potenziale diffusivo della Rete Internet sviluppando processi comunicativi bi-direzionali tra un numero sempre crescente di utenti;
    3. knowledge economy, che si è sviluppata quando la conoscenza è diventata un “bene economico”, in conseguenza della pratica dell’outsourcing, della crescita della specializzazione delle competenze, dell’estensione del numero di utilizzatori del network digitale dovuto alla riduzione dei costi di transazione in rete. Questo ha comportato che i costi e i rischi di investimento, relativi alla produzione di nuova conoscenza, si riducono, mentre crescono i ricavi ottenibili dal suo utilizzo più diffuso.
    In questo senso le ICT hanno subito un’evoluzione da "tecnologie di processo" a "tecnologie di integrazione" o per la System Integration, poiché è aumentata la mole di dati elettronici disponibili, sono migliorate le tecnologie per catturare, organizzare, condividere e analizzare i dati e per coordinare le persone. Inoltre, la convergenza settoriale in atto è strettamente legata all’evoluzione tecnologica, ed è la tendenza a dissolvere i confini tra settori, mercati ed esperienze dei consumatori aprendo nuove opportunità di business al fine di incontrare i bisogni dei consumatori e generare valore.

  • L’evoluzione dell’ambiente di marketing, che ha visto sia l’evoluzione dei consumatori sia quella dei consumi, la tendenza alla customization* e alla customerizzazione**, il dualismo branded/unbranded***.

  • La crescente pressione delle istituzioni e della società civile sull’attività delle imprese, per il perseguimento di uno sviluppo sostenibile sia sotto il profilo economico che sociale. Le imprese sono sempre più chiamate a svolgere un ruolo di “cittadinanza collettiva” facendo propri gli obiettivi di sviluppo collettivi, di creazione e mantenimento dei livelli di occupazione, di partecipazione alla formazione delle risorse umane, di solidarizzazione con le comunità nelle quali operano.

  • Recessione economica, che ha portato nella metà degli anni '90 ad ondate di ristrutturazioni dovute ad acquisizioni, fusioni, licenziamenti e, di conseguenza, all’adozione di strategie di BPR – Business Process Reengineering, mirate alla ristrutturazione dei processi aziendali che, se non opportunamente gestiti, rischiano di far perdere parte della conoscenza aziendale.

  • Mobilità professionale e conseguente “guerra dei talenti”.

  • Business integration intra e inter-organizzativa nella catena del valore.


Le imprese che decidono di implementare progetti di gestione della conoscenza, più o meno evoluti, sono, quindi, spinte da esigenze legate alla loro stessa sopravvivenza, che risiedono nella necessità di saper interpretare i meccanismi competitivi per poter raggiungere i loro obiettivi e garantirsi un futuro di sviluppo. Lo spostamento della leva competitiva è oggi verso attività che sono “a monte” rispetto alla progettazione di beni e servizi, funzione deputata tradizionalmente a produrre innovazione. Sono attività di raccolta, elaborazione, diffusione e scambio di conoscenze propedeutiche a fornire le competenze necessarie allo sviluppo di un flusso sistematico di prodotti e servizi con caratteristiche innovative, appetibili per il mercato di riferimento.

Secondo Davenport Thomas H. e Prusak Larry in “Working Knowledge. How organizations manage what they know” del 1998, parte dei progetti di knowledge management condividono uno dei seguenti obiettivi:
- rendere visibile la conoscenza e il suo ruolo all’interno dell’organizzazione
- sviluppare una cultura knowledge intensive, incoraggiando la condivisione di conoscenze tra i membri dell’organizzazionecostituire una “infrastruttura di conoscenza” basata non solo su supporti tecnologici, ma anche sullo sviluppo di un network di relazioni.


*Customization = personalizzazione di massa di servizi o prodotti guidata dal produttore
**Customerizzazione = personalizzazione di servizi e prodotti one-to-one guidata dal cliente
***Dualismo branded/unbranded = Legato alla competizione tra marche dei produttori e private label o marche dei distributori

mercoledì 7 ottobre 2009

La conoscenza organizzativa: i processi organizzativi, la comunicazione, l’apprendimento organizzativo, i processi decisionali

La capacità distintiva delle organizzazioni che vogliono acquisire una conoscenza organizzativa completa è gestire e promuovere come fonti:

  • i dati aziendali (data), raccolti in database interni o provenienti da fonti esterne;

  • le informazioni (information), insieme di dati aziendali organizzati e archiviati in documenti e strumenti vari;

  • la conoscenza (knowledge), intesa appunto come, insieme di idee e prospettive, giudizi e aspettative, intuizioni e valori, metodologie e know-how accumulati, integrati e detenuti da un’impresa lungo un adeguato arco di tempo e disponibili per applicazioni operative di business nella gestione di specifiche situazioni e problemi.

    Secondo Nelson e Winter la conoscenza organizzativa è costituita da quell’insieme delle competenze individuali e dei principi organizzativi attraverso i quali le relazioni tra individui, gruppi e membri di un network sono strutturati e coordinati. La conoscenza organizzativa è, dunque, racchiusa all’interno di routines che costituiscono la memoria delle organizzazioni in quanto conservano una rappresentazione, spesso implicita, del percorso storico dell’impresa. Infatti, ogni organizzazione agisce sia secondo delle routines operative, che rappresentano delle regole che indirizzano il comportamento di breve periodo e sono attività tendenzialmente statiche che le imprese svolgono abitualmente e che permettono di replicare compiti già svolti, e sia secondo routines strategiche, che rappresentano le regole dinamiche che guidano le scelte di crescita dell’impresa, che la orientano a favorire l’apprendimento e l’innovazione. La conoscenza organizzativa è racchiusa all’interno di queste routines che rappresentano la memoria dell’organizzazione, in quanto conservano, anche implicitamente, la parte automatica delle competenze dell’organizzazione stessa e la capacità di attivare processi organizzativi che consentano di ricombinare gli asset ai fini del mantenimento dell’equilibrio necessario alla sopravvivenza dell’organizzazione. Si evince così come esista una forte interdipendenza tra i concetti “informazione”, “conoscenza”, “competenza” e “routine” in ambito organizzativo.


Le condizioni necessarie affinché si crei conoscenza organizzativa sono:

  • intenzionalità, che è l’aspirazione dell’organizzazione al raggiungimento degli obiettivi che si è prefissata, ossia le sue strategie, la sua vision. Senza questo elemento non è possibile stabilire il valore di una informazione o di una conoscenza percepita o creata. E’ necessario il coinvolgimento dei membri dell’organizzazione o la presenza di uno sponsor, cioè di un elemento dell’organizzazione che faccia parte del top e middle management o che sia promotore e spinga i livelli più alti dell’organizzazione a realizzare sistemi di comunicazione e diffusione delle informazioni affinché diventino patrimonio aziendale: il Chief Knowledge Officer;

  • autonomia individuale per accrescere le probabilità di generare opportunità inattese e che le organizzazioni devono avere per superare standard obsoleti, affinché vengano realizzate le strategie aziendali e l’organizzazione stesa possa configurasi come sistema autopoietico;

  • fluttuazione e caos creativo o rumore, che stimola l’interazione tra l’organizzazione e il contesto esterno. Rappresentano tensioni da ascoltare con attenzione, che possono generare frattura e di conseguenza possono alimentare la generazione di conoscenza organizzativa. Per governarle e renderle “benefici” o momenti di creatività e non lasciare che siano caos distruttivo per l’organizzazione, è necessario che i membri di questa siano consapevoli e in grado di riflettere sulle azioni che compiono e che l’organizzazione stessa crei le condizioni affinché tale “riflessione nell’agire” diventi prassi;

  • ridondanza di informazioni, che promuove la condivisione della conoscenza tacita e accelera il processo di creazione della conoscenza, oltre ad offrire all’organizzazione un meccanismo di autocontrollo in seguito alla creazione di maggiore consapevolezza nelle persone dei fatti organizzativi e aziendali;

  • varietà minima richiesta, ossia la capacità di potersi strutturare in modo da rispondere alle pressioni e dinamiche esterne ma anche interne.


Ma la conoscenza organizzativa non può prescindere né dagli elementi oggettivi, quali la necessità di dotarsi di strutture e di processi adeguati per la raccolta, l’immagazzinamento e la diffusione di informazioni, né da elementi soggettivi, quali la capacità dei singoli individui che ne fanno parte di prendere parte attiva ad un processo di interpretazione, rielaborazione, codifica e decodifica fortemente influenzato dalle caratteristiche personali. Secondo Nonaka e Takeuchi (1995) la conoscenza organizzativa si crea attraverso un processo a spirale che prevede l’interazione fra conoscenza tacita ed esplicita a diversi livelli, da individuale a organizzativo. Tale interazione poggia sulla conversione della conoscenza tacita in esplicita e viceversa. Il processo che si innesca è sociale ed è basato sulla comunicazione. Le modalità di conversione sono: socializzazione, esteriorizzazione, combinazione, interiorizzazione. Inoltre, in questo processo di creazione di conoscenza organizzativa, sono da considerare tre dimensioni:
- la dimensione epistemologica, che rappresenta il luogo nel quale avviene la conversione della conoscenza tacita in conoscenza esplicita
- la dimensione ontologica, che rappresenta il luogo in cui la conoscenza creata dagli individui viene trasformata a livello di gruppi e di organizzazione
- il fattore temporale, che determina la natura dinamica delle relazioni tra le altre due dimensioni o “spirali della conoscenza”, dalla cui interazione emerge la capacità di innovazione


In tale modello è evidente l’importanza del ruolo della “relazione” e della “comunicazione”.



La comunicazione rappresenta il “collante” e “il mezzo” nel sistema organizzazione per creare il valore e diffonderlo. È lo strumento fondamentale di coordinamento delle attività relazionali dell’impresa, attraverso cui attivare contatti, gestire rapporti, creare e mantenere la fiducia, promuovere la co-evoluzione, esercitare strategie di influenza e condizionamento. La comunicazione, quindi, genera e sostiene le relazioni, sviluppa la fiducia e la conoscenza, produce credibilità, contribuisce alla costruzione della consonanza o compatibilità strutturale e della risonanza o condivisione di valori, obiettivi e strategie. La comunicazione costituisce una componente strutturale delle organizzazioni:
- verso l’interno, contribuendo a ridurre il disordine e a sviluppare una forza coesiva tra le varie componenti dell’impresa intorno a identità, valori e cultura comuni e orientando i comportamenti verso finalità condivise
- verso l’esterno, costituendo il vettore delle relazioni che legano l’impresa all’ambiente in cui opera, favorendo la co-evoluzione dell’impresa e dei suoi interlocutori, generando adattamento, dialettica, retroazione e contribuendo a costruire image, reputation ed equity dell’impresa.

La comunicazione d’impresa si sviluppa su due diversi piani:
- piano strategico --> meta-comunicazione, finalizzata a creare la consonanza (compatibilità strutturale) e risonanza (fiducia, condivisione di valori, obiettivi e strategie) con i propri interlocutori che, in una prospettiva di lungo termine, realizza la rete contestuale all’interno della quale verranno veicolate le comunicazioni operative, determinando le condizioni per ottenere da queste una maggiore efficacia, creando l’ambiente operativo;
- piano operativo --> comunicazione corrente, con prospettive di breve termine.

La sfida delle organizzazioni non è forzare le persone ad adattarsi al modello dell’”uomo organizzativo” perfettamente integrato ed in linea con i dettami dell’organizzazione, ma piuttosto riuscire a configurare un’organizzazione flessibile al punto da riuscire a valorizzare le conoscenze dei singoli individui che la compongono e garantire che le esperienze e le conoscenze individuali siano messe a disposizione dell’intera organizzazione.

Le organizzazioni che sanno realizzare l’apprendimento organizzativo sono focalizzate nel:
- crescere in conoscenza, dotandosi di processi e strumenti per afferrarla, condividerla e diffonderla;
- mantenere una struttura flessibile, sperimentando nuovi modelli di management;
- ottimizzare la condivisione delle informazioni in un clima di scambio di partecipazione attiva, tesa verso il networking;
- fondare l’azione sulla partecipazione, favorendo la costruzione di relazioni improntate alla fiducia e all’empowerment;
- orientarsi all’innovazione attraverso la trasformazione;
- sviluppare le capacità di problem solving;
- riflettere sulla storia dell’impresa e apprendere dall’esperienza propria e dei concorrenti per capire gli errori commessi, come migliorare le strategie operative e per rafforzare le prestazioni, aumentando l’efficacia e l’efficienza.

Le modalità di apprendimento organizzativo sono alla base delle modalità decisionali delle organizzazioni e vengono definite da Miller come “…l’acquisizione di nuova conoscenza da parte di attori che sono in grado e disponibili ad applicarla alla presa di decisioni o al fine di influenzare altri nell’organizzazione”. Diverse modalità di decisione sottendono diverse forme di apprendimento che Miller in “A preliminary typology of organizational learning: synthesizing the literature” (Journal of Management, 1996) classifica secondo due dimensioni:
- il grado di costrizione a cui è sottoposta l’azione individuale o organizzativa a causa di vincoli cognitivi, politici e di risorse che porta a distinguere modalità di apprendimento volontarie da quelle deterministiche;
- il modo di pensare ed agire che porta a distinguere le modalità di apprendimento metodiche o intenzionali, che sono deduzioni basate su analisi obiettive di fatti precisamente presentati da quelle emergenti o spontanee, che sono intuizioni o abduzioni basate anche su intuizioni soggettive di fatti approssimativamente rappresentati.
Incrociando tali classificazioni Miller arriva a identificare sei possibili modalità di decisione e apprendimento:
1. Apprendimento analitico, che emerge sia dall’analisi sistematica e quantitativa dei fenomeni d’azienda e d’ambiente che porta alla decisione, sia dalla verifica dei risultati effettivamente raggiunti. Richiede la presenza di sistemi di misurazione formali e si sviluppa a livelli elevati della struttura gerarchica. È comune quando c’è una modesta incertezza sulle relazioni qualificanti la situazione decisionale e bassa sui fini da perseguire.
2. Apprendimento sperimentale, che emerge dall’effettuazione di esperimenti e dall’analisi dei risultati raggiunti. La sperimentazione attiva meccanismi di ricerca locale che stimolano, sulla base dei primi risultati emersi, il miglioramento dei processi decisionali. Alcune volte l’azione può precedere la fase di analisi nel “ciclo di apprendimento”. La modalità in esame consente una riduzione del rischio e si sviluppa soprattutto a livelli medi della struttura gerarchica. È comune quando c’è incertezza sulle relazioni qualificanti la situazione decisionale.
3. Apprendimento strutturale, che, richiamando il modello sotteso alla Teoria evolutiva di Nelson e Winter, emerge dall’applicazione delle routines organizzative che standardizzano i modi per interpretare le informazioni, definendo nel contempo gli ambiti di attenzione e le modalità di ricerca, e, in generale, i processi decisionali. In questo senso, le routines diventano meccanismi sia impliciti che espliciti, che servono anche per guidare l’apprendimento organizzativo in modo programmato. È una modalità comune quando c’è bassa incertezza sia sulle relazioni qualificanti la situazione decisionale che sui fini da perseguire e si sviluppa anche a livelli bassi della struttura gerarchica.
4. Apprendimento interattivo, emerge dalla discussione e dalla negoziazione con soggetti interni ed esterni all’organizzazione. Questo permette di pervenire ad una situazione che permette di inquadrare le opportunità e i pericoli. È una modalità che si sviluppa ai livelli intermedi dell’organizzazione. Si verifica quando c’è alta incertezza sia sulle relazioni qualificanti che sui fini da perseguire e quando è presente una significativa complessità organizzativa collegata alla dimensione aziendale e alla diversità di prodotti e mercati serviti.
5. Apprendimento sintetico, che dipende da una visione olistica dell’azienda come sistema complesso e dinamico. Emerge dall’analisi sistemica dei fenomeni d’azienda e d’ambiente che porta al riconoscimento intuitivo di pattern di comportamento aziendale. La sintesi creativa e, quindi soggettiva, avviene al livello di singolo individuo dopo che ha costruttivamente integrato il significato anche nascosto dei problemi di scelta, delle possibili modalità per affrontarli e delle connesse soluzioni. La modalità di analisi si sviluppa soprattutto ai livelli alti della struttura gerarchica. È comunque quando c’è alta incertezza sulle relazioni qualificanti la situazione decisionale, ma bassa incertezza sui fini da perseguire.
6. Apprendimento istituzionale, che è una modalità di apprendimento con un aspetto politico-ideologico ed emerge dall’assimilazione di valori, ideologie e pratiche proposte da chi è preposto al governo dell’azienda e dell’ambiente. Può essere realizzata tramite l’indottrinamento, la socializzazione e persino la coercizione. L’indottrinamento può avvenire in forma implicita attraverso speciali rituali, procedure e linguaggi, oppure in forma esplicita attraverso la statuizione di vision e mission aziendali. L’obiettivo è rendere coerenti i comportamenti dei membri dell’organizzazione con i valori del leader. La modalità di analisi si sviluppa anche a livelli bassi della struttura gerarchica. È comune quando c’è modesta incertezza sia sulle relazioni qualificanti la situazione decisionale che sui fini da perseguire.

venerdì 2 ottobre 2009

Cosa è il Knowledge Management: brevi cenni storici e teorici

Le radici del knowledge management affondano nel 1916, quando fu coniato il termine Fordismo per descrivere il successo ottenuto nell'industria automobilistica a partire dal 1913 dall'industriale statunitense Henry Ford (1863 - 1947), che si ispirò alle teorie proposte dal connazionale Frederick Taylor (1856 - 1915). Taylor, infatti, aveva sviluppato una teoria, poi denominata Taylorismo (dal nome del suo fondatore), che espose nella monografia del 1911 intitolata “The Principles of Scientific Management”, un trattato sull’organizzazione scientifica del lavoro. L’esigenza di individuare una metodologia che portasse le aziende ad essere maggiormente efficaci era dovuto al momento storico, post rivoluzione industriale, che vedeva un fermento tecnologico tale da creare il rischio di non adeguatezza alle innovazioni dei processi produttivi se non opportunamente gestiti e organizzati. In sintesi, Taylor suggeriva di organizzare il modello lavorativo secondo tre fasi:
1. analizzare le caratteristiche della mansione
da svolgere
2. creare il prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di mansione
3. selezionare il lavoratore ideale, al fine di formarlo e introdurlo nell'azienda

Il punto cardine era identificare un lavoratore adatto al raggiungimento degli obiettivi prefissati per ogni mansione da svolgere. La conseguenza era l’alienazione dei lavoratori rispetto a quanto erano chiamati a fare, poiché non era richiesta né una specifica conoscenza, né una competenza particolare. I lavoratori erano considerati alla stregua di “ingranaggi”, dovevano soltanto interagire con una macchina. Quindi c'era un estremo bisogno di una figura che portasse delle effettive soluzioni a tali scompensi sociali, quali il malessere lavorativo, lo stress quotidiano, il malcontento e la scarsa resa produttiva.

La prima introduzione su vasta scala dei metodi tayloristici fu attuata dalla Ford, che nel 1908 realizzò la catena di montaggio per avviare la creazione del “modello T”, l'automobile destinata a conquistare il mercato con i suoi prezzi particolarmente competitivi. Fu in seguito adottata in modo considerevole nel settore dell'industria manifatturiera, tanto da rivoluzionare notevolmente l'organizzazione della produzione a livello globale e diventare uno dei pilastri fondamentali dell'economia del XX secolo, con notevoli influenze sulla società.
I pilastri su cui si fondava il Fordismo erano:
· spinta divisione del lavoro
· raggruppamento per attività simili
· gerarchia/burocrazia
· prodotti standard a basso prezzo
· pochi modelli
· integrazione verticale o rapporti di fornitura basati sul prezzo

Questo rendeva necessario operare un embrionale knowledge management, valido per quelle che erano le esigenze delle organizzazioni di quel tempo, caratterizzato da:
· cattura e analisi delle best practises dei lavoratori efficienti;
· scomposizione delle attività in operazioni elementari;
· standardizzazione dei processi;
· affidamento delle operazioni elementari ai lavoratori non addestrati e stretta supervisione.

Il Fordismo era adatto ad ambienti poco complessi, orientato essenzialmente all’abbattimento dei costi di produzione attraverso l’utilizzo di manodopera poco qualificata, teso a realizzare elevati volumi di produzione di pochi modelli di auto, senza interesse alla personalizzazione, ma piuttosto alla standardizzazione, così da poter allargare il mercato di riferimento. La criticità di questo modello organizzativo fu la poca flessibilità, il difficile coordinamento delle varie risorse e funzioni, bassa capacità di innovazione e di risposta ai cambiamenti ambientali, deresponsabilizzazione, conflitti e sprechi. Il superamento del Fordismo avvenne quando si affacciò un nuovo approccio, il Toyotismo, nella gestione dei processi produttivi, finalizzato a rendere le aziende più competitive, basato su tre pilastri fondamentali che sono: la qualità dei prodotti secondo i principi del TQM – Total Quality Management, i contenuti costi di produzione e i tempi rapidi di consegna dei prodotti secondo il principio del JIT – Just In Time.
I principi fondamentali del Toyotismo sono:
· orientamento al cliente che comporta servizi/prodotti personalizzati
· orientamento al processo che come il prodotto deve rispondere a criteri di qualità
· coinvolgimento dei lavoratori, che da elementi passivi devono diventare attivi
· miglioramento continuo

Questo nuovo modo di intendere il ruolo dei lavoratori e di organizzare e strutturare le aziende pone le basi per un’attività di knowledge management che si ricava:
· nel monitoraggio e nella misurazione continua delle performance di processo;
· nelle rilevazioni degli scostamenti dagli standard aziendali o dai bisogni dei clienti, sia interni che esterni, effettuate dai lavoratori addestrati al lavoro, formati sul metodo di rilevazione statistica SQC – Statistical Quality Control e organizzati in team;
· nelle proposte dei lavoratori di soluzioni e nuovi standard recepiti sia dall’organizzazione
· collaborazione a tutti i livelli nella catena del valore aziendale (azienda e fornitori).
Il passaggio dal Fordismo al Postfordismo, caratterizzato dal Toyotismo è stato determinato da una serie di cambiamenti ed evoluzioni avvenuti nelle organizzazioni, quali:
· organizzazioni gerarchiche à organizzazioni più partecipative e integrate
· mansioni semplici e ripetitive à mansioni più complesse e dinamiche
· lavoro individuale à lavoro di gruppo
· lunghe catene decisionali à organizzazioni piatte
· organizzazioni burocratiche à organizzazioni flessibili
· orientamento all’efficienza à orientamento all’efficacia
· concorrenza e conflitto à collaborazione
· conformità ad uno standard à sviluppo continuo di nuovi standard

Questo, secondo Argyris e Schon, docenti universitari americani, ha comportato il passaggio da una forma di apprendimento a giro singolo o single loop ad una forma definita a giro doppio o double loop, utile in un’ottica di una patrimonializzazione della conoscenza acquisita.


Nella prima forma di apprendimento l’individuazione e la correzione di errori non pone in discussione gli aspetti chiave della mappa cognitiva, infatti quello che si imparava nell’organizzazione di impostazione Fordista era solo la memorizzazione di standard da mettere in atto, senza nessuna possibilità di prevedere o poter offrire un’alternativa. Nella seconda forma di apprendimento, invece, la scoperta e la correzione di errori produce un mutamento della mappa cognitiva e comporta l’individuazione di un’azione appropriata a questa nuova configurazione. Questo era quello che avveniva ai membri dell’organizzazione configurata secondo i principi del Toyotismo, i quali potevano capire se modificare lo standard imparato e quindi contribuire al miglioramento dei processi aziendali.

Ma la storia del knowledge management vero e proprio ha inizio in tempi più recenti. Nel 1986 Karl M. Wiig, Presidente del Knowledge Research Institute, durante una conferenza allestita dall’Organizzazione Internazionale dei Lavoratori delle Nazioni Unite, enunciò i principi del knowledge management, termine da lui coniato. Da quel momento l’argomento iniziò ad interessare importanti multinazionali. Nel 1991 Harvard Business Review, prima rivista di management del mondo, pubblicò il primo articolo dedicato alla disciplina di Nonaka e Takeuchi e nel 1993 uscì “Knowledge Management Foundations: Thinking about Thinking – How People and Organizations Create, Represent, and Use Knowledge”, Volume 1° della Knowledge Management Series di Karl Wiig. Nel 1994 ci fu la prima conferenza sul tema dal titolo "Knowledge management network". Nel 1995 fu pubblicato il libro di Nonaka e Takeuchi “The Knowledge Creating Company”, considerato un punto di riferimento per tutti gli studiosi e appassionati della materia.

Con il termine Knowledge Management, letteralmente si intende “gestire la conoscenza”. Tenendo conto, in senso lato, che “management” vuol dire avere il controllo di qualcosa, che poi è reale fine ultimo di tutte le attività che sono mirate al “gestire”, si può già intuire cosa comporti realizzare il knowledge management in ambito organizzativo. Per poter spiegare cosa si intenda in concreto per “gestire la conoscenza” nelle organizzazioni, è opportuno partire da alcune definizioni di Knowledge Management date esimi studiosi:
Il KM è l’arte del creare valore dalle risorse intangibili di un’organizzazione” (Sveiby,1996);
Knowledge Management significa identificare, gestire e valorizzare cosa l’organizzazione sa o potrebbe sapere: skill ed esperienze delle persone, archivi, documenti e biblioteche, relazioni con i clienti e fornitori e altri materiali archiviati in database elettronici”(Davenport e Prousak, 1998);
Il KM riguarda le questioni critiche dell’adattamento organizzativo, la sopravvivenza e la competenza di fronte al crescere e discontinuo cambiamento ambientale. Essenzialmente, esso rappresenta i processi organizzativi che cercano una combinazione sinergica tra capacità di IT di elaborare dati e informazioni e la capacità creativa e innovativa degli esseri umani” (Malhotra, 1998);
Il knowledge management può essere definito come la costruzione, il rinnovamento e l’applicazione della conoscenza finalizzata, in modo sistematico ed esplicito, a massimizzare l’efficacia dell’organizzazione derivante dalla conoscenza stessa e dagli altri asset del capitale intellettuale. Include l’analisi, la sintesi, la verifica e l’implementazione dei cambiamenti correlati ai flussi di conoscenza coerentemente con gli obiettivi dell’organizzazione. Comprende tutte quelle attività necessarie per facilitare il lavoro direttamente collegato con la conoscenza e non può prescindere dall’acquisizione di una mentalità della gestione degli asset legati alla conoscenza, richiesta per creare, mantenere e utilizzare un capitale intangibile appropriato.”(Wiig, 1999).

In sostanza, dato che per il KM i punti cardine sono le persone, i processi e la tecnologia, si può definire come “l’insieme di risorse umane, strumenti tecnologici e metodologie per la creazione, la cattura, l’organizzazione, l’immagazzinamento, lo scambio, la diffusione, la riutilizzazione e l’appropriazione della conoscenza delle organizzazioni”. È un processo che comporta sia “relazione” che “selezione”.
È possibile individuare due fasi che corrispondono a due stadi diversi della storia del knowledge management:

· Il knowledge management di prima generazione à in cui è primaria la focalizzazione sulla gestione dell’informazione.
L’obiettivo del knowledge management è pragmatico: migliorare l’efficienza dei gruppi collaborativi tramite l’esplicitazione e la condivisione della conoscenza che ogni membro matura nel corso del suo percorso professionale. I primi investimenti si concentrano soprattutto sullo sviluppo dei mezzi per rendere veloce e semplice l’archiviazione, la descrizione e la comunicazione di dati e informazioni. È una prima fase, quella della first generation, che tende a ridurre il knowledge mangement alla sua componente strumentale, l’information technology, fondamentale per la sua realizzazione, ma che non ne esaurisce le potenzialità.


· Il knowledge management di seconda generazione à in cui è primaria la focalizzazione sulla gestione della conoscenza.
Il “ciclo della conoscenza” non può fermarsi alla trasmissione di dati o di informazioni, come vorrebbe il knowledge management di prima generazione. Ma è un ciclo che prevede un processo di elaborazione dell’informazione, come sostengono Nonaka e Takeuchi, che conduce alla consapevolezza e conoscenza vera e propria e quindi ad un percorso di adattamento alla realtà esterna. La relazione tra dati da trattare e conoscenza può essere rappresentato con forma una piramidale, come si può vedere nella figura, essendo il rapporto tra dati, informazione e conoscenza di tipo gerarchico.



Alla base della piramide troviamo i dati, che rappresentano il materiale “grezzo” e abbondante dell’informazione, ridondante, proveniente da fonti eterogenee, unità informativa dotata di senso, definito e non ambiguo, con una connotazione oggettiva. Poi troviamo l’informazione, che è data dai dati opportunamente selezionati e organizzati riferiti ad un certo contesto problematico. A questo livello avviene la comprensione delle relazioni tra i dati e la costruzione di modelli mentali. Più in alto c’è la conoscenza, cioè l’informazione rielaborata e applicata alla pratica. È un sistema organizzato di informazioni in grado di produrre know-how (saper fare tecnico-pratico) e know-why (conoscenza concettuale e interpretativa). E’ il livello della comprensione delle strutture e dei rapporti causa-effetto. Ed infine, al vertice la saggezza, ossia la conoscenza che deriva dall’intuizione e dall’esperienza. È il momento della consapevolezza, il livello della comprensione dei principi e della formazione degli archetipi, e quindi della decisione. La seconda fase del knowledge management si focalizza su come poter mettere a servizio di tutta l’azienda le conoscenze professionali specifiche di ogni membro, al fine di migliorare l’efficienza e l’efficacia.

Questa logica spinge il knowledge management a diventare un sorta di “filosofia” della collaborazione e della condivisione negli ambienti di lavoro. Ma può incontrare alcuni ostacoli, tra i quali una certa resistenza interna a rilasciare informazioni specifiche, trasferendo il know how raggiunto in determinati ambiti, per una sorta di paura di perdere il “potere” connesso al possesso della conoscenza acquisita. In altri termini, la crescita dell’organizzazione viene vissuta quasi come un impoverimento personale. La conoscenza viene vista come una sorta di "bagaglio" personale che chi la detiene può portare via quando lascia l'azienda, arrecandole un danno economico. Invece, quello della conoscenza è un ciclo che può portare alla produzione di nuova conoscenza solo tramite la condivisione e l'elaborazione di informazioni, per innescare quella che è stata definite la “spirale della conoscenza organizzativa” e di conseguenza l’apprendimento organizzativo, considerato un must per le organizzazioni che vogliono eccellere ed essere competitive.